
Sarnano Contemporanea
5 DONNE E UNA VOCE PER PASOLINI
6 AGOSTO 2021 SARNANO (MC)

Il 6 Agosto, alle 21:30, in Piazza Perfetti a Sarnano, si è svolto l'evento conclusivo di Onde: ”5 Donne e una voce per Pasolini”. Ideato da Fausto Olmelli.
Mentre si avvicendavano su un palazzo della piazza le foto di Sara Vallucci, foto che ha scattato nel “segno visivo” di Pasolini, è stato proiettato un montaggio coraggioso di Ilaria Fioravanti dal titolo “Chi è l’ultimo”.
Poi Alessandro Nalli “la voce” ha letto un intervento di Elisabetta Costantini sui primi romanzi di Pasolini: “Ragazzi di vita” e “Una vita violenta”; di Alessandra Mazzetti sui rimandi pittorici iconografici ne "La ricotta"; di Martina Vallesi sulle persecuzioni giudiziarie subite dall’artista.
Le foto di Sara Vallucci
Il docu-cortometraggio "Chi è l'ultimo" di Ilaria Fioravanti
L'intervento di Alessandra Mazzetti
“Il mio gusto cinematografico, non è di origine cinematografica, ma figurativa. E non riesco a concepire immagini, paesaggi, composizione di figura, al di fuori di questa mia iniziale passione pittorica. Quindi quando le immagini sono in movimento, sono in movimento un po’ come se l’obbiettivo si muovesse su loro come sopra un quadro.”
E’ il 1939 quando il diciassettenne Pier Paolo Pasolini incontra e si appassiona alla storia dell’arte, attraverso le lezioni universitarie di Roberto Longhi, è in una piccola aula dell’ateneo bolognese che gli occhi del giovane si riempiono delle diapositive in bianco e nero delle opere di Masaccio e Masolino, di particolari di santi e Madonne.
“Ciò che Longhi diceva era carismatico. Per un ragazzo oppresso, umiliato dalla cultura scolastica, dal conformismo della società fascista, questa era la rivoluzione, perché Longhi non apparteneva alla falsa cultura ma alla vera cultura. Solo dopo Longhi è diventato il mio vero maestro. Allora, in quell’inverno bolognese di guerra, egli è stato semplicemente la Rivelazione.”
Una rivelazione che lascerà un’impronta profonda, donandogli innumerevoli ricordi che riemergeranno nei sui film vent’anni dopo. Sono gli anni sessanta, e in quelle sue prime pellicole Accattone e Mamma Roma sono impressi proprio quegli insegnamenti: il bianco e nero delle diapositive, l’attenzione ai particolari e ai volti, espressa attraverso i primi piani, e, soprattutto, la passione per la pittura trecentesca, quella di Giotto e Masaccio, “che ha l’uomo come centro di ogni prospettiva”.
E poi, nel 1963, in uno dei culmini più intensi del cinema pasoliniano, si realizza anche un momento di straordinaria interazione tra cinema e pittura: il mediometraggio La Ricotta, un dei quattro episodi che compongono il film Rogopag, firmato da quattro diversi registi.
Il segmento pasoliniano è ambientato nelle campagne romane, una troupe è intenta a girare un film sulla Passione di Cristo, tra gli attori c’è Giovanni Stracci, che interpreta uno dei due ladroni. Descrizione cruda e disincantata sulla dura vita delle comparse, l’uomo, dopo aver donato ai propri familiari il proprio cestino del pranzo, affamato, cerca con espedienti vari di ottenerne un secondo, riuscito, dopo varie peripezie, a comprare una ricotta, mentre è intento a mangiarla viene sorpreso dalla troupe che, deridendolo, lo esorta a consumare i resti del banchetto allestito per le riprese dell’ultima cena. Il finale è amarissimo, Stracci muore d’indigestione durante la scena della crocifissione.
Il film è una dura riflessione su una fede ormai andata perduta, dirà Pasolini: “penso ad una rappresentazione sacra del Trecento, all’atmosfera di sacralità ispirata a chi la rappresentava e a chi vi assisteva. E non posso non pensare con indignazione, con dolore, con nostalgia, agli aspetti così atrocemente diversi che una sì analoga rappresentazione ottiene accadendo nel mondo moderno”.
Inserite, quindi, anche con lo scopo di sottolineare le contraddizioni e la decadenza morale dell’uomo contemporaneo due opere tra le più rappresentative del manierismo fiorentino: La Deposizione dalla Croce di Rosso Fiorentino e il Trasporto di Cristo di Pontormo. Esse vengono ricostruite fedelmente e inserite nel tessuto filmico attraverso la tecnica del tableaux vivant, non solo, Pasolini le mette particolarmente in risalto scegliendo di introdurle a colori, in contrapposizione con il resto della pellicola in bianco e nero. E che colore! Il colore dei pittori manieristi: acceso, surreale, antinaturalistico. E non stupisce la scelta di servirsi proprio di questi due pittori, che furono i precursori e i maggiori protagonisti di quella nuova generazione di artisti in rottura con il passato rinascimentale.
Il fine di Pasolini non è, però, quello di un semplice omaggio estetico nei confronti della pittura ma, piuttosto, l’opposto. Un polemizzare contro le vuote ricostruzioni fatte nelle pellicole a tema biblico e, soprattutto, una riflessione su come non andrebbe mai fatto un film religioso.
Il risultato sono due scene quasi comiche, grottesche e parodistiche, grazie anche alla scelta musicale che ne enfatizza gli esiti.
E, in questo capovolgimento di senso, dove le scene sacre vengono svuotate di significato e volgarizzate, la vera sacralità si nasconde dietro al protagonista Stracci, che si toglie il pane di bocca per darlo alla sua famiglia e che alla fine muore in croce, per davvero, ignorato da una società che si dimentica troppo facilmente degli ultimi, come lo stesso regista afferma nella battuta che conclude il film: «Povero Stracci. Crepare… non aveva altro modo di ricordarci che anche lui era vivo».
La Ricotta costerà a Pasolini una condanna per Vilipendio della religione di stato, l’ennesima ingiusta azione giudiziaria che costellerà tutta la sua vita.
Ma questa è un’altra storia…materia da giuristi…
L'intervento di Martina Vallesi
È il 3 novembre 1975 e in molte copertine di quotidiani è pubblicato il frame di uno spiazzo polveroso. Un campetto di calcio, forse. È l’Idroscalo di Ostia. Al centro, il corpo martoriato di un uomo giace riverso a terra. È il poeta Pasolini... disteso bocconi. Un braccio sanguinante scostato e l’altro nascosto dal corpo. I capelli impastati di sangue gli ricadono sulla fronte escoriata e lacerata.
Ferite sulle spalle, sul torace, con il segno degli pneumatici di una macchina sotto cui è rimasto schiacciato. Questo l’epilogo della breve esistenza di uno dei più grandi intellettuali del ‘900.
Una vita vissuta sperimentando la dolorosa situazione di chi è additato dalla folla come un nemico delle Istituzioni, sempre al centro di azioni giudiziarie assurde e infondate, come un capro espiatorio da perseguire e da condannare.
Poeta, regista, saggista, scrittore, pittore, comunista eretico e, omosessuale. Ed è sull’omosessualità che si basa, per lo più, tutta la persecuzione giudiziaria: trentatre processi, oltre cento denunce, altrettante aggressioni fisiche ed il continuo linciaggio della stampa.
Che spesso, o quasi sempre, tali azioni giudiziarie si risolvano a suo favore non ne diminuiscono la sofferenza e l’umiliazione.
Accade così, infatti, per le accuse di “corruzione di minorenne” per i fatti di Casarsa. Pasolini è assolto perché “il fatto non costituisce reato”. È uno stimato Prof. di lettere in una Scuola media della provincia di Udine. L’assoluzione non basta a scongiurare la perdita del posto d’insegnante e l’espulsione dal Partito Comunista Italiano per indegnità politica e morale.
Non potendo più vivere in un paese di provincia, è la Roma del dopoguerra ad accoglierlo. La Capitale porta ancora i segni della guerra. La città in espansione, ingloba la campagna e tutte le ondate di migranti. Ai margini, immense distese di baracche, le “borgate”, dove famiglie poverissime si ammassano l’una sull’altra in alloggi di fortuna. Periferie violente ed abbandonate che il giovane friulano percorre in esplorazione con il desiderio di frequentare i giovani emarginati. Questi ragazzi gli fanno conoscere il linguaggio e le regole di borgata.
Pasolini li ascolta, li osserva, inizia scrivere di loro e, a loro, dedica il romanzo “Ragazzi di vita”.
Il gergo dei ladri e delle prostitute urta la sensibilità dell’Italia “bacchettona” e democristiana degli anni ’50, così, la Presidenza del Consiglio dei Ministri promuove l’azione giudiziaria. Il romanzo è posto sotto sequestro e, Pasolini è citato in giudizio, e insieme, il suo Editore per aver dato alla stampa una pubblicazione dal contenuto osceno.
Rinviata la prima udienza per consentire al Collegio giudicante di leggere l’opera, all’esito dell’interrogatorio degli imputati e dell’escussione dei testimoni, la Procura della Repubblica chiede l’assoluzione, ed il Tribunale di Milano assolve Pier Paolo Pasolini e Livio Garzanti dall’imputazione loro ascritta perché “il fatto non costituisce reato”.
Ma... accade così per le accuse di oscenità che si attirano i suoi film: da “Accattone”... da “Mamma Roma” a “Teorema”, dal “Decamerone” ai “Racconti di Canterbury”. Films non convenzionali che riflettono una personalità non convenzionale, quella del “copro-scrittore”, del “pornografo di sinistra”, come amichevolmente delineata dalla stampa.
Accade anche per il “non doversi procedere” per la querela per diffamazione a mezzo stampa del Comune di Cutro; accade con un Procuratore alle calcagna per “corruzione di minorenne e turpiloquio” per “i fatti di Anzio” che archivia per “infondatezza della notizia di reato”; accade con l’assoluzione per “insufficienza di prove” dall’accusa di “favoreggiamento” per i“fatti di Via
Panìco”.
Anche nella rapina di S. Felice Circeo, nulla a sostegno della notitia criminis... si legge che ad un
distributore di benzina, un uomo dopo aver bevuto una coca-cola e dopo aver fatto molte domande al barista, avrebbe indossato un paio di guanti neri, inserito nella pistola un proiettile d’oro, e cercato di rapinarlo dell’incasso della giornata.
Stravaganze ed anomalie corroborano un impianto accusatorio pretestuoso, suffragato da prove inesistenti. Tant’è, che nel processo entra di tutto! Tornano i fatti di Casarsa; si insinua che l’Avv. Difensore, Prof. Francesco Carnelutti, sia il suo amante; persino la scena di una rapina descritta nel romanzo “Una vita violenta”, diviene indizio della sua colpa.
Entra pure il criminologo Aldo Semerari. La perizia psichiatrica spiega, però, il fondamento del processo.
Non la minaccia al benzinaio del Circeo, non la tentata rapina, non il porto abusivo di arma, bensì l’orientamento sessuale dell’imputato, considerato perverso per principio.
L’indagine personologica mette in evidenza una «tendenza coprolalica».
«Il Pasolini [si legge], è uno psicopatico dell’istinto, un anomalo sessuale, un omofilo nel più assoluto senso della parola. [...] l’anomalia sessuale di Pasolini, ovvero la sua omosessualità esibizionista denota una chiara infermità di mente che deve essere ulteriormente accertata dai giudici del processo».
Ancora... «IN NOME DEL POPOLO ITALIANO”, Il Tribunale di Roma, IV^ Sezione Penale, Visti gli articoli 483, 487, 488 codice di procedura penale, dichiara Pasolini Pier Paolo COLPEVOLE del delitto ascrittogli e, con le attenuanti generiche, lo condanna alla pena di mesi quattro di reclusione e al pagamento delle spese processuali. Ordina sospendersi l'esecuzione della pena inflitta per anni cinque alle condizioni di legge».
Così è deciso alla pubblica udienza del 7 marzo 1963, che chiude il più celebre dei processi per “vilipendo della religione di Stato” della storia del dopoguerra.
Sotto accusa il mediometraggio intitolato “La Ricotta”, un poemetto per immagini che utilizza voracemente pittura e letteratura e che colloca il tema della Passione di Cristo nello scenario dell’umanità blasfema e cinica, con l’intento di mettere in risalto la distanza dei valori cristiani dall’antireligiosità del mondo contemporaneo.
Con in tasca un Decreto di sequestro, i Carabinieri irrompono alla prima proiezione, al Cinema Corso, e sequestrano la pellicola. Nel corso della requisitoria il PM mette in campo la sua competenza cinematografica e, mediante una moviola professionale, indica, fotogramma per fotogramma, le sequenze incriminate.
Dopo l’accorato appello del PM ai “cattolici di sacrestia” ed alla stampa cattolica, sorprendentemente benevola nei confronti del film, giunge la condanna a 4 mesi di reclusione con la condizionale perché «la religione cattolica è apertamente dileggiata, schernita, derisa, immiserita nei simboli e nelle manifestazioni più intime e essenziali».
Pasolini non ci sta! Propone appello, e la Corte d’Appello di Roma lo assolve perché “il fatto non costituisce reato”. «Il film riproduce irriverenze e sconcezze della troupe [...], rappresentazione di vita contemporanea che descrive la primitiva rozzezza e il grossolano umorismo della plebe e l’intellettualismo e il cinismo dei registi». Una sostanziale adesione alla tesi della difesa, questa, a cui si oppone il Procuratore Generale della Repubblica con un ricorso per Cassazione.
La Terza Sezione della Suprema Corte accoglie le ragioni del Procuratore, ma nel frattempo interviene l’estinzione del reato per amnistia.
Una doccia fredda! L’ennesima vittoria sul campo ma l’ennesima sconfitta dell’arte di Pasolini.
Non se ne afferra la poetica, il fine e, sbagliati sono i mezzi...Ormai è certo!
Pasolini sa di non poter cambiare la realtà ma non smette di descriverla, spostando sul piano dell’immaginazione il suo desiderio di giustizia.
Così, con un’immaginaria “Norimberga”, giudica i reati di arroganza e corruzione dei Dirigenti della DC. Il più bel processo, ispirato al suo senso di giustizia, lo imbastisce proprio lui, il Poeta perseguitato.
Nome dopo nome, cognome dopo cognome, immagina di portare al banco degli imputati tutti vertici della Democrazia Cristiana accusandoli di connivenza con la mafia, di corruzione, di disprezzo verso il popolo italiano. Li accusa di aver contribuito al processo di analfabetizzazione di massa, imputando loro il malgoverno continuo, gli scandali, il terrorismo.
Tale “processo”, frutto della sua immaginazione, che naturalmente non si celebrerà mai, è pubblicato dal Corriere della Sera il 24 agosto 1975... il 2 novembre 1975 Pasolini incontra la ferocia dei suoi aggressori...
Una morte che ha messo a tacere una voce ma non il pensiero; che ha fermato un corpo ma non “segno” perché, si sa... «il mio vero peccato è di aver esercitato il mestiere di giornalista da polemista e da poeta, nella più totale insubordinazione. Questa insubordinazione l’hanno trasferita sul piano morale e l’omosessualità è divenuta il principio stesso del male. Lo scandalo in realtà è sorto dal fatto che non solo non tacevo la mia omofilia, ma anche dal fatto che non tacevo nulla. A procurarmi ogni insulto è stato il diritto di parola che mi prendevo».
L'intervento di Elisabetta Costantini
È vero che il Riccetto per un po’ di tempo aveva lavorato: era stato preso a fare il pischello al servizio delle camionette da uno di Monteverde Nuovo. Ma poi aveva rubato al padrone mezzo sacco, e quello l’aveva mandato a spasso. Così passavano i pomeriggi senza far niente, a Donna Olimpia, sul Monte Casadio, con gli altri ragazzi che giocavano nella piccola gobba ingiallita al sole, e più tardi con le donne che venivano a distenderci i panni sull’erba bruciata. Oppure andavano a giocare al pallone lì, sullo spiazzo tra i grattacieli e il Monte di Splendore, tra centinaia di maschi che giocavano sui corsaletti invasi dal sole, sui prati secchi, … davanti alle scuole elementari Franceschi piene di sfollati e di sfrattati.
Riccetto è il protagonista di Ragazzi di vita, primo romanzo scritto da Pasolini e pubblicato coraggiosamente da Garzanti nel 1955. Il giovane poeta era appena arrivato a Roma dal Friuli e aveva incontrato le borgate romane e i suoi abitanti.
I protagonisti del libro sono ragazzini, che durante l’arco narrativo del racconto crescono. Sono ignoranti, poveri, piccoli delinquenti. Non si vergognano della povertà perché la conoscono da sempre, all’inizio non sognano una vita borghese perché ancora non sanno cosa sia. Sono vitali, gioiosi, ridono in modo sgangherato, sguaiato. Sono maneschi, parlano un romanaccio imbarbarito, pieno di parolacce.
Questo romanzo scandalizzò il pubblico dell’epoca e forse scandalizza anche oggi i benpensanti. Pasolini fece un’operazione col linguaggio che richiamava quello operato da Giovanni Verga nei suoi romanzi veristi. Il romano di Pasolini è il romano parlato dai ragazzi borgatari dell’epoca ed è un linguaggio immaginato: che suona come quello pronunciato. Così facendo lo scrittore fa parlare i protagonisti, non li giudica. Li vediamo alle prese con le loro giornate e le loro attività: le partitelle di pallone, i furti, la prostituzione, il bagno al Tevere, il loro continuo girovagare per Roma, che con le sue strade malmesse, i giardini bruciati pieni di fango e immondizia, è una dei protagonisti del libro, al pari dei ragazzi di vita.
Quattro anni dopo Pasolini pubblica “Una vita violenta”, anche qui, accanto al protagonista Tommaso-Tommasino, ci sono Lello, il Zucabbo, Cazzitini, lo Sciacallo, Il Zellerone, Budda. Vivono in borgata, fra le baracche, e le baracche, come tutto il quartiere, si trova al di sotto del fiume Aniene, e quindi viene completamente allagato ogni volta che c’è un forte temporale.
Ecco un estratto da “Una vita violenta”:
Così andarono a pedagna a Ponte Mammolo, e non s’accontentarono d’ascoltare la predica della seconda messa, ma pure dell’ultima, quella di mezzogiorno. Il prete parlava sempre di loro, de ‘sti ladroni, de ‘ste anime perse, de ‘sti sacrileghi e de qua e de là… Si fecero per davvero una spanzata di messe, che del resto erano almeno dieci anni che non entravano in chiesa, da quando avevano fatto la prima comunione, e manco si ricordavano più chi aveva creato il mondo.
Poi tutti soddisfatti spesarono sotto il bel solicello che aveva sbaragliato le nuvole e brillava allegro sulle casette bianche della borgata sparse sulla campagna lavata. Il Zimmìo offrì il cappuccino con un maritozzo, a un baretto di Via Selmi, pieno di giovanotti coi vestiti buoni, tutti in grazia di Dio.
Qui è evidente la tenerezza con la quale Pasolini descrive questi anti-eroi. Si legge ancora in “Una vita violenta”:
Coi grugni sporchi sotto i ciuffi, si tenevano abbracciati, parlando tutti smaniosi, senza guardare in faccia nessuno. Alcuni parlavano, parlavano, altri tacevano ridendo. E quelle faccette, sopra i collettini zozzi a colori, alla malandrina, erano l’immagine stessa della felicità: non guardavano niente, e andavano dritti verso dove dovevano andare, come un branco di caprette, furbi e senza pensieri.
Alla famiglia di Tommaso a un certo punto assegnano una casa popolare: la felicità che lo pervade quando per la prima volta sale i gradini di un appartamento vero e non fatto di lamiere! Nel corso del libro si seguono i suoi sforzi per integrarsi dopo due anni di galera, il suo sentirsi elegante, a posto, quando decide di lavorare, di iscriversi al partito comunista, il suo orgoglio quando passeggia sottobraccio alla fidanzata.
Tommaso, come Riccetto, rappresenta un sottoproletariato ai margini della società che gli italiani contemporanei di Pasolini non conoscono e non vogliono conoscere, né vedere.
Chi sono gli ultimi si chiede il video-montaggio di Ilaria Fioravanti che abbiamo appena visto. Negli anni Cinquanta, nella Roma distrutta fra le macerie non solo dei palazzi, ma anche fra le macerie morali, Pasolini ci descrive gli ultimi. Sono i ragazzi di vita che consumano una vita violenta, che non hanno parole, ma solo il dialetto, che non hanno regole o una ideologia, o dei sentimenti solidi.
Il poeta non ci dice qual è la soluzione, quale strada debbano percorrere questi ragazzi, non insegna niente. Li descrive e li fa parlare. Ma quanto è rivoluzionario questo dare la parola agli ultimi.
Nel 1975 poco prima di morire Pasolini scrive sul cambiamento antropologico degli italiani e soprattutto degli ultimi, quei borgatari che erano pieni di vita, un’esplosione di gioia, risate, leggerezza, e che, nel 1975, non esistono più. La società italiana è cambiata, c’è una omologazione culturale, il consumismo si sta affermando e con lui il modello dei borghesi figli di papà che i ragazzi di vita delle borgate prima avevano sempre deriso e che ora invece imitano, anzi sono come loro nel senso che hanno gli stessi sogni, le stesse aspirazioni, vogliono la stessa casa, con gli stessi elettrodomestici, vogliono indossare gli stessi vestiti. Si è imposto un unico modello di vita. Scrive Pasolini nel Corriere della Sera del 1975, a proposito del film Accattone, che ha girato nel 1961 e che ripropone sullo schermo i protagonisti dei suoi primi due romanzi:
Tra il 1961 e il 1975 qualcosa di essenziale è cambiato: si è avuto un genocidio. Si è distrutta culturalmente una popolazione. …
Se io oggi volessi rigirare Accattone, non potrei più farlo. Non troverei più un solo giovane che fosse nel suo «corpo» neanche lontanamente simile ai giovani che hanno rappresentato se stessi in Accattone. Non troverei più un solo giovane che sapesse dire, con quella voce, quelle battute.
Non soltanto egli non avrebbe lo spirito e la mentalità per dirle: ma addirittura non le capirebbe nemmeno.