Ci sono luoghi o sensazioni che rimangono nell’anima per sempre, come l’odore dei limoni, i pergolati che chiudono
le ferrovie prima delle stazioni, i grandi viali che dividono le città o i tigli che l’afrore segnano delle estati verso sud
su certi consorzi umani che, a volte, la memoria rigenera dal fondo delle strade che conoscemmo e nei sogni
che tornano come un ricordo velato e innaturale.
Vincenzo non ama la magliana, non è certo un posto per viverci, per vedere passare l’estati e gli inverni,
i mattini che non annunciano niente, le sere che si succedono con il vuoto degli storni che non danno pace,
le auto dispiegate in cerca d’una salvezza o di un golgota da passare o da fermarcisi per sempre.
Abita in via dell’Impruneta che si discosta appena dalla grande arteria che attraversa da est a ovest
tutto il quartiere ove pulsa il siero disciolto in emazie di dolore e di noia nell’ansia che si ostina nelle auto, nei
corpi di fango ch si muovono obliquamente nell’aria soffocante di certe sere che annunciano l’estate, finisce
dopo un esito di casermoni dove non durano i cortili e le corti fatiscenti alle alzate che chiudono l’ansa
del tevere sonnolento e malarico, ove una pista ciclabile cerca una dignità, un decoro che muore a sterpaglie,
canne sgretolate dove orinano uomini e cani e ne segna un confine irrevocabile fino alla roma-fiumicino,
che taglia il fiume e traccia una linea di cemento prima dei campi aperti e del complesso dello sheraton
con gli occlusi percorsi del golf e le sue buche così perfette e inattendibili, per chi vive da quest’altra parte;
dal viadotto si potevano osservare la grande cupola dei santi Pietro e Paolo, come un monito così in alto
con il suo marmo bianco a scavare la distanza da quel luogo dall’altra parte del fiume, dove le case conservavano
una pace che è solo quella dei ricchi, c’era una continuità nelle villette basse, un ordine così compunto
che solo gli uomini avevano voluto e parevano così distanti e inanimate da sembrare le dimore degli immortali.
Vincenzo Troccoli ha un problema, un handicap o come si usa dire è un diversamente abile, si muove su quelle
macchinette elettriche che procedono a scatti, a mutamenti repentini, a volte con esiti ingloriosi nell’attraversare
un marciapiedi o perché un ostacolo improvviso ne provoca il cappottamento( dopo l’incidente è il suo unico mezzo
di locomozione): in certi pomeriggi in cui il caldo si fa umido e putrido degli odori del fiume può rimanere
in quella posizione per qualche tempo interminabile, fino a che la pietà umana o un senso di fastidio di qualche
passante nella canicola, raro come certi cani che solo ora si mostrano come dèi tra le dimore di cemento,
nei piazzali ove sembrano per sempre pietrificati e immortali, vere statue di questa consorteria d’uomini,
non lo libera dall’imbarazzo e lo riavvia.
Si muove con qualche agio suo particolare nello scirocco che disgrega l’asfalto, tra poche automobili in transito,
si porta su via della magliana a lambire i negozi (quelli che vendono prodotti di alta tecnologia lo appassionano
di più) , qualche centro commerciale ancora in funzione a quell’ora, annusa l’odore del Kebab che fuoriesce da
miseri ambiti ristretti, l’odore penetrante e acre delle spezie che portano fin qui l’africa, le dorate coste di quel
mare così lontano e irraggiungibile, che, pure non deve amare molto come quegli idiomi incomprensibili e aspri,
quel vociare senza grazia per lui e, forse, molesti e che lo mettono di cattivo umore, lo infastidiscono, perché
rompono i sacri silenzi al centro della meridiana, lo riconducono al mondo.
Arriva, talvolta, a giungere dove i platani si diradano, i platani dalle incredibili cortecce quasi bianche dove un tempo
scrisse il suo nome e, forse, quello d’un amore, oltre l’incrocio che porta al cavalcavia della strada che sale fino
ai quartieri piccolo borghesi dai balconi rivestiti di gerani e peonie che aveva sempre osservato dal basso come
qualcosa di inavvicinabile e lontano: ne osservava i movimenti sicuri e alteri di quegli uomini che muovevano sempre
con una meta , un destino preciso e salutare prima della sera, lasciandoli alla loro sorte che non sembrava
chiedere alcuna approvazione o condivisione.
Seguitava, poi, nella pista ciclabile sino a piazza Meucci, il porto sicuro, l’approdo ombrato dove al chiosco poteva riposarsi,
farsi una birra osservando la giostra delle vetture quasi silenziose, adesso, come un presagio di pace, e poteva scambiare
qualche parola con un avventore accaldato che, improvvisamente, snocciolava la propria vita, per lo più deludente
o insignificante, ne parlava con noia, quasi con un astio inevitabile, ma non chiedeva consensi né approvazione.
Ci fu, poi, il rombo d’una moto, inatteso e pulsante, da quella scendeva un giovane dai capelli cortissimi, come un dio
che attendesse a un convivio di lì a poco; provava una leggera sensazione di benevolenza e di dolcezza, ne ammirava
gli abiti puliti e stirati di fresco, ne immaginava il profumo come faceva con le giovani donne che gli capitava di osservare,
desiderando di quelle la pelle morbida e umettata,le gambe appena abbronzate, la tenerezza vivida dello sguardo.
In seguito il motociclista riprendeva la sua corsa e l’osservava come un punto sempre più lontano oltre il semaforo di via
Oderisi da Gubbio e non aveva pena per quel destino che inseguiva le prime tenebre per gettarsi nel tumulto della città
che ora riprendeva vita, muoveva i suoi rivoli con audacia e ostentazione fin dentro il suo cuore con il suo carico di
gioventù e dolore.
Qualche mattina seguiva l’argine dell’ansa che il Tevere formava vicino ponte Marconi, accompagnava con lo sguardo
il battello che leggero tagliava l’acqua verso Ostia pieno di turisti e studenti, il fiume era sporco, melmoso per la pioggia
della notte ma placido e sicuro, senz’onda, e questo gli dava un senso di calma, per un poco sentiva dentro di sé la bellezza
di quell’ora quando tutto non è ancora segnato, poteva guardare da lì il suo quartiere così bello adesso sotto il dorso
della Portuense, la macchia d’un verde tenero e intenso che si stagliava sul costone che lo chiudeva quasi a difenderlo nel
cerchio dei pini e degli eucalipti appena mossi dalla brezza, ne vedeva i palazzi accesi dalla luce di ponente e parevano
un tutt’uno adesso, una specie di fortezza Bastiani, inattaccabile e sicura.
Di fronte l’oro del frontale della Basilica di San Paolo gli mozzava ancora il respiro come quando era ragazzo e l’osservava
come un miracolo o una beatitudine inaspettata dal cinodromo, dove vedeva correre i vecchi levrieri appresso ad un fantocciolepre
telecomandato, e s’immalinconiva per lo strazio dei cani a ogni curva ed al guaire che gridava la crudeltà degli uomini.
Se ne tornava, allora, verso casa, in quel palazzone proprio vicino alla chiesa che non amava, con il suo cemento armato,
nel suo disegno di scatola che non sembrava levarsi verso il cielo terso, così ben attaccata alla terra, con il giardinetto
compunto di cui una parte l’ingegno umano aveva attrezzato per i bisogni dei cani; se ne tornava al pianterreno di quello
stabile che gli aveva procurato il Comune vent’anni prima: avvicinandosi sentiva i rumori consueti, le grida di qualche fanciullo
che inveiva, la voce stentorea della signora del secondo piano e questo lo rincuorava, e superato l’acciottolato del cortiletto
d’ingresso si sentiva sicuro e difeso proprio nel cuore del suo quartiere che tanto disprezzava.
Quasi di fronte casa sua c’era una grande piazza dove qualche tiglio dava un poco d’ombra e i fanciulli provavano lo skyboard:
l’avevano chiamata piazza Fabrizio de Andrè e questo lo riempiva d’orgoglio, dava un senso a certe cose che aveva sempre pensato
e che se davvero non si sentisse la voce, il nome gli ricordava uno che aveva tanto amato; e poi ciò che gli riempiva l’anima
era che non s’era pensato al nome d’un politico, d’un esploratore sconosciuto, d’una città o di un paese che non avrebbe mai
visto o d ‘un illustre cardiologo che il suo cuore non conosceva e anche i battiti di quelli della gente del suo quartiere ignorava,
ma uno che scriveva versi, che scriveva canzoni, a uno di Genova così lontana eppure così vicina a quel fiume che a fatica
poteva osservare e pareva un mare.
Il fiume non si scorgeva dalla sua casa, per l’argine creato affinché celasse che i casamenti erano impiantati ben sotto
il livello delle acque, magari dai piani più alti qualcuno avrebbe potuto vederlo scendere senza rumore, con indifferenza
che pure l’avrebbe portato nelle grandi acque del mare a Fiumicino o al porto di Traiano; ma lui lo sentiva come s’avverte
lo strisciare della serpe che subito scompare: l’aveva visto qualche volta un biscione, un frustone che andava ad abbeverarsi
e non provava pena per quello che come lui era abituato a celarsi, a mantenere una qualche distanza dagli uomini.
Talvolta poteva osservare dall’alto del terrapieno scendere lungo le balze, lo sterrato che declinava dalla pista ciclabile
tra sterpaglie e grovigli di rovi e iniettarsi l’eroina, ne coglieva lo scarto repentino e la pace, poi, improbabile, che forse
risignificava il suo universo, l’ansia levata allo stentare delle ore che trovava, dunque, allora un senso.
Ora a sera il suo quartiere si rianimava, a frotte s’aggregavano combriccole di gente, tentavano lo scirocco che ormai
andava placandosi fra i platani, colse le prime stelle, il piccolo carro vegliava allora su quelle case incendiate dalla calura,
guardava alla Magliana Solidale con benevolenza, alla biblioteca che non era male anche se nessuno ci andava: poteva
allora immaginare che una stella si sarebbe staccata proprio lì di fronte sul costone di S.Generosa, dov’erano gli altri
martiri, e venisse a cadere proprio nel suo giardinetto così senza rumore e, forse, gli avrebbe dato il nome di qualche
antico amore o dell’amico che l’avrebbe atteso sulla soglia della notte.
Alfredo Sorani